Intervista allo Zokkolette F.C.
(le domande di questa intervista sono state poste dalla redazione di Toronews, portale dei tifosi granata particolarmente attento alla tematiche sociali e alla loro applicazione nel mondo del calcio)
Per cominciare, come avete scelto questo nome strano per un club/sito? E perché l’uso della "k" nel nome?
Il curioso nome del nostro gruppo nasce banalmente dalla toponomastica della nostra città, a ricordare cioè il luogo dove ci si è conosciuti e si è vissuta una esperienza importante: il servizio civile svolto nel 1997 presso un centro ascolto extracomunitari in un vicolo nel cuore di Roma: via delle Zoccolette, per l'appunto. Quei dieci mesi a stretto contatto con gente scappata dalla propria terra per fame o per persecuzione politica ci hanno dato occasione di lavorare insieme per una causa importante, scoprendo una sintonia di valori e motivazioni che ci ha unito in maniera davvero forte e cementando una amicizia che è andata subito al di là dell'intesa sul lavoro.
La doppia trasformazione della c in k, e quindi la connotazione estremista che abbiamo voluto dare al nostro nome, è nata per gioco ma al tempo stesso su basi piuttosto serie: deriva infatti dall'etichetta di obiettori "ribelli" che ci siamo guadagnati durante il servizio civile secondo il giudizio dei nostri superiori, per il fatto di non esserci prestati alla copertura di una serie di "disfunzioni" (chiamiamole così) relative al centro in cui eravamo impiegati: situazioni che ad altri parevano normali ma che a noi sembravano invece alquanto vergognose, per cui ci siamo impegnati a denunciarle. Da qui la qualifica di teste calde che ci è stata affibbiata, neanche fossimo un manipolo di esaltati… ma evidentemente è stato considerato sovversivo il fatto che noi pensassimo a rendere quanto più possibile valido il supporto alle tante persone che si rivolgevano al centro con richieste di aiuto e sostegno. Non abbiamo mai avuto interessi diversi da questo, né tantomeno la voglia di giocare a fare i ribelli, ma certamente in quei dieci mesi è come se avessimo "occupato" quel centro con il nostro servizio e con il nostro impegno, facendolo funzionare come secondo noi dovrebbe operare un posto a cui si rivolgono persone in difficoltà, e denunciando le situazioni che secondo noi erano in decisa contraddizione con una struttura di assistenza, mantenuta con denaro stanziato per cause sociali. Purtroppo tutto questo ci è stato fatto pagare, dato che siamo tuttora costretti a spendere tempo e denaro per difenderci in tribunale da una denuncia per diffamazione, e per dei neolaureati alle prime esperienze di lavoro non è piacevole affrontare una accusa simile con richiesta di risarcimento danni per decine di migliaia di euro, neanche avessimo contestato un capo di Stato in un articolo sul New York Times… Sicuramente - nel momento in cui abbiamo riscontrato in quell’ufficio situazioni che non ritenevamo esattamente un segno di attenzione al prossimo – se avessimo assunto un atteggiamento di omertà e di connivenza saremmo stati più apprezzati da parte del personale e dei dirigenti dell'Ente che gestisce quel centro, e avremmo evitato i guai giudiziari di cui sopra… ma questa è una triste regola che vale dovunque ci siano persone che preferirebbero forse avere al proprio servizio una forza lavoro non pensante. Cosa che però gli obiettori di coscienza non sono per definizione, dal momento che presentano allo Stato una dichiarazione di rifiuto delle armi e dell’esercito basata proprio sulle proprie idee e sulla voglia di assolvere gli obblighi di leva in modo utile alla società, e quindi non possono poi tollerare di ritrovarsi a prestare servizio civile in strutture dove non ci sia rispondenza alcuna con le motivazioni e i valori a cui si richiama la scelta di un obiettore di coscienza.
Come nasce il vostro club?
Il club (e il relativo sito internet) è nato dall'esigenza e dal desiderio di dare continuità all'esperienza di grande impatto formativo vissuta tutti insieme in quei dieci mesi di servizio, a contatto con persone che ci raccontavano le loro storie, le loro vite spezzate, le loro speranze di trovare una vita nuova in Italia, i loro desideri di rivedere la famiglia rimasta lontano, i loro drammi nel ripensare alla propria gente ridotta in miseria. Quando è arrivato il momento del congedo, a tutto il gruppo è sembrato naturale cercare nuovi spazi e nuovi momenti per continuare a mettere in pratica la sintonia che ci aveva unito durante quei dieci mesi di servizio, oltre che per portare avanti una amicizia nata da un incontro casuale ma cementata dall'aver condiviso una esperienza così straordinaria ed importante. Abbiamo allora unito la passione per il pallone all'intento di adoperarci per la costruzione di una società solidale, antirazzista e nonviolenta, nella convinzione che il mondo del calcio possa essere un ottimo veicolo sociale per certi valori, e che la violenza che talvolta sporca questo mondo debba essere sbattuta fuori dagli stadi non chiudendo questi ultimi o militarizzandoli come se fossero fronti di guerra, ma rendendoli teatro di messaggi di pace e di solidarietà: ecco come è nato lo Zokkolette Football Club.
Roma viene spesso citata per essere una città un po' razzista, soprattutto da parte di alcune frange sia della tifoseria laziale che di quella romanista. Avete problemi con questi gruppi di tifosi razzisti e violenti?
Innanzitutto va detto che gli episodi razzisti che accadono negli stadi trovano sui mezzi di informazione sempre un risalto molto elevato, ma raramente viene dedicato spazio agli episodi di segno contrario, per cui il giudizio complessivo rischia sempre di tener conto solo degli aspetti negativi, anche quando questi riguardano gruppi molto marginali, mentre tutto il resto del pubblico magari si è distinto per atteggiamenti positivi. Pochi per esempio sanno che durante le partite della Roma all'Olimpico, se da un gruppetto di dieci o quindici imbecilli parte il "buu" razzista verso un giocatore nero, immediatamente altre settantamila persone rispondono all'unisono fischiando quel coro idiota o seppellendolo con cori di incitamento alla squadra. Tipicamente però l'idiozia del gesto razzista di poche persone finisce in evidenza sul giornale, mentre la reazione con cui tutto il resto dello stadio ha contrastato ed isolato quell'atteggiamento non sempre viene riportata, dando spazio ad ingiuste generalizzazioni e soprattutto rischiando di far sentire importanti quattro cretini che in realtà sugli spalti sono stati zittiti immediatamente e hanno rimediato quindi una ben meschina figura.
A proposito di risposte al razzismo, un episodio curioso ed emblematico avvenne tre anni fa, quando durante un Roma-Bologna l'intero stadio Olimpico riservò per novanta minuti il più sonoro e incessante dei "buu" al giocatore più biondo e ariano che ci fosse in campo, cioè lo svedese Anderson! Sicuramente la cosa sarà stata poco divertente per l’incolpevole centravanti del Bologna, ma ovviamente nessuno aveva nulla contro di lui: il messaggio di quel "razzismo all'incontrario" voleva invece essere assolutamente positivo, cioè far riflettere su quanto sia relativo (e quindi stolto) etichettare una persona per il colore della pelle o per il paese di provenienza.
Va detto che se in alcune curve, come appunto quella romanista, le presenze razziste sono limitate a gruppi davvero sparuti, che scompaiono al cospetto del resto dello stadio e come detto vengono regolarmente isolati e zittiti, gli amici di alcune altre tifoserie devono purtroppo fare i conti con una presenza dell'estrema destra nella loro curva molto più radicata e numerosa, la cui voce più difficilmente può essere coperta da quella di chi condanna cori e striscioni razzisti. Ovviamente ciò non toglie che anche tra queste ultime tifoserie, in cui l’elemento deleterio è numericamente più consistente, ci siano invece tantissime persone di buon senso che fanno di tutto per contrastare certi atteggiamenti. Insomma, la nostra esperienza è che sugli spalti si trova in generale molta più gente pronta a collaborare per isolare le frange razziste, che non persone pronte ad unirsi ai cori o ai gesti violenti di queste ultime, e questo è un segnale che ci rende positivi ed ottimisti nel guardare al popolo degli stadi. Purtroppo, a fronte dell'atteggiamento positivo di settantamila persone, talvolta basta la follia di cinque o dieci criminali per mettere in scena episodi di teppismo (tipo un lancio di sassi all'indirizzo del pullmann della squadra avversaria, o di oggetti pericolosi in campo durante la partita) e per rovinare tutto. Quasi sempre a fare le spese delle conseguenti misure di repressione da parte delle forze dell'ordine sono folle che con certi episodi non hanno nulla a che vedere neanche da lontano e che vanno allo stadio solo per divertimento e per passione sportiva. Probabilmente sarebbero più opportune misure mirate alle singole persone, visto che i sofisticati mezzi con cui domenicalmente vengono fotografate e "schedate" le presenze nelle curve permettono di identificare gran parte dei responsabili di gesti razzisti o violenti (e quindi anche di scagionare i tanti che con certi episodi non hanno nulla a che vedere). A giudicare dal comportamento delle forze dell'ordine viene il sospetto che sconfiggere realmente la violenza negli stadi non sia l'obiettivo di chi impartisce gli ordini... e non è fantascienza ipotizzare che il persistere di situazioni di disordine (o di potenziale disordine) faccia comodo a chi in questo modo ha buon gioco nel rivendicare l'importanza di forze dell'ordine sempre più numerose ed agguerrite, chiedendo ai referenti politici sempre più finanziamenti e autonomia di decisioni.
A vostro avviso é possibile conciliare il tifo calcistico con opere di solidarietà?
Assolutamente sì: pensiamo non solo che passione calcistica e impegno sociale possono essere conciliati, ma che si tratta di un binomio di grandi potenzialità.
Primo perché il calcio è in assoluto una delle attività dalla dimensione più popolare, nel senso che unisce (sia nel praticarlo a qualsiasi livello che nel seguirlo da tifosi) persone di diversa cultura, estrazione sociale, posizione lavorativa, fede religiosa, ecc. ecc., e questa funzione di ammortizzatore sociale e di incontro tra esperienze distanti ci pare un contributo importante per creare quella cultura della solidarietà, dell'attenzione al diverso, del riconoscimento della dignità umana a prescindere dal biglietto da visita, che deve essere alla base di una società solidale.
Secondo perché il calcio è in assoluto il fenomeno di massa più seguito e con più risalto mediatico, a tutti i livelli, e quindi può facilmente rilanciare messaggi e stimoli che per altri canali risultano di ben più difficoltosa divulgazione e diffusione.
In che modo il calcio dovrebbe collaborare alle attività sociali?
Ci sono due canali di impegno da tener presenti: uno pratico e uno culturale. Il primo è legato al sostenere iniziative concrete di solidarietà, contribuendo al loro finanziamento e sensibilizzando la gente a fare altrettanto (e per una società di calcio ci sono mille modi per fare sia l'una che l'altra cosa).
L'altro canale, secondo noi ancora più importante del primo, passa attraverso la grande potenzialità del mondo del calcio di creare attenzione attorno a certi messaggi di pace e di civiltà, di farli propri e di rilanciarli alla società civile affinché vengano recepiti da più persone possibile e vadano a costituire la base culturale essenziale per creare un mondo basato sull'attenzione ai diritti del più debole e non sulla legge del più forte. Un primo passo è costituito dalla correttezza in campo, dal saper accettare la sconfitta, dallo sdrammatizzare le esagerazioni spesso montate attorno all'evento che si svolge sul terreno di gioco, dallo stare attenti a quello che si dice davanti ai microfoni delle interviste: un atteggiamento di questo tipo da un lato contribuisce a stemperare la tensione dell'appuntamento sportivo e a sottolineare l'idiozia di vivere una partita di calcio come se fosse una guerra, e contemporaneamente serve a ricordare che ben altri sono i problemi e le questioni su cui vale la pena indignarsi ed adoperarsi.
Un passo successivo è quello che riguarda il farsi direttamente portatori di certe istante sociali, cosa che un idolo delle folle può fare facilmente, ottenendo una attenzione su certe tematiche che magari mille associazioni insieme non riuscirebbero mai ad ottenere. Non dimentichiamo che i fans dei campioni delle squadre di calcio sono principalmente i giovani, cioè quella fascia d'età con cui tipicamente ci sono più difficoltà ad entrare in contatto su tematiche sociali e politiche, e che invece si dimostra spesso pronta ad accogliere gli stessi messaggi quando vengano veicolati dal mondo dello sport o della musica, cioè da ambienti e con linguaggi a loro più congeniali e familiari.
Qual é il genere di solidarietà di cui vi occupate?
Per riprendere quanto appena detto sui diversi modi di impegnarsi nel sociale, ci piace attivarci soprattutto dal punto di vista culturale e politico, cioè provare a portare in campo determinati valori nelle partitelle tra amici e nelle iniziative che organizziamo o a cui collaboriamo, affidandoci a gesti anche piccoli che possano lanciare dei messaggi, spingere ad una riflessione, contribuire a far conoscere certe realtà e certe problematiche. Di modi ce ne sono tanti: per esempio utilizzando i palloni del commercio equo e solidale, fabbricati nel sud del mondo senza far ricorso alla piaga del lavoro minorile, come invece tristemente accade per i prodotti commercializzati dalle grandi marche di articoli sportivi. Oppure scegliendo un campo di gioco gestito da una casa famiglia per extracomunitari, destinando così la spesa dell'affitto non all'arricchimento dei circoli sportivi ma al mantenimento di persone che si guadagnano da vivere con questo mestiere. O ancora indossando magliette ad alto contenuto antimilitarista, organizzando tornei che al calendario delle partite affianchino momenti di formazione ed informazione su tematiche sociali, aderendo ad iniziative e manifestazioni, impegnandosi a gridare il proprio "no" a guerra e sfruttamento (eravamo anche a Genova al corteo contro il G8)... e cercando sempre di utilizzare ogni occasione per diffondere e proporre un certo tipo di idee e di valori: l'aggregazione di ragazzi e di realtà sociali che si può facilmente creare organizzando una partita o un torneo di calcio è una ottima occasione di incontro per proporre messaggi che vadano al di là del puro evento sportivo, il quale risulta spesso un veicolo di idee spesso molto più efficace di una iniziativa organizzata ad hoc su certe tematiche.
Talvolta cerchiamo di supportare questo impegno politico e culturale con iniziative più pratiche: ad esempio il torneo "diamo un calcio alla guerra", organizzato insieme ad altre realtà sociali durante il conflitto del Kosovo allo scopo di testimoniare l'impegno del mondo del calcio amatoriale nel chiedere la fine dei bombardamenti, è stato affiancato da una raccolta di fondi da destinare ad iniziative di solidarietà con le vittime della guerra, sia di parte serba che di parte albanese. Tutte le squadre partecipanti erano informate del fatto che nel dare la propria parte per le spese d'affitto del campo potevano versare qualcosa in più da destinare a questa causa, e la risposta è stata più che positiva.
Pensate che sia possibile sensibilizzare i tifosi a partecipare alla solidarietà sociale? E' necessario avere un grosso nome che faccia da cassa di risonanza, o basta solo una grande forza di volontà?
L'esperienza mostra che le tifoserie hanno sempre risposto alla grande ad iniziative di solidarietà proposte da organizzazioni, associazioni o dalle stesse società calcistiche sulle più svariate tematiche sociali. Non raramente anzi sono proprio alcuni club o gruppi di tifosi a farsi promotori di iniziative di questo tipo e a coinvolgere il resto del pubblico. Qui c'è una precisazione, apparentemente banale, che vale la pena fare: a differenza di quello che vorrebbero farci credere alcuni organi di informazione, i frequentatori degli stadi sono le stesse persone che durante la settimana troviamo sui posti di lavoro, chi a fare il dirigente d'azienda, chi il meccanico, chi il fruttivendolo, chi l'insegnante, chi l'impiegato, chi la casalinga, chi lo studente liceale o universitario... nelle curve ci sono tanti padri e madri di famiglia, tanti ragazzi e ragazze, tante persone anziane che vanno allo stadio per godersi la partita in una atmosfera festosa e vivace. Questa è una osservazione molto banale, eppure troppo spesso viene dimenticata, come se i tifosi fossero bestie che durante la settimana vivono chiuse dentro chissà quali gabbie e vengono sguinzagliate solo la domenica per andare a combinare chissà quali casini! Questo rientra nel discorso che facevamo prima: la giusta condanna per gli episodi di violenza o razzismo non può essere sinonimo di generalizzazione a tutto il popolo degli stadi delle idiozie commesse da dieci imbecilli. Chiarito questo, ci mancherebbe altro che questo variegato popolo che affolla curve e tribune non fosse pronto a rispondere ad iniziative sociali. Per proporre queste ultime, è innegabile che avere un grosso nome disponibile ad appoggiare la causa sia un aiuto determinante, soprattutto per la straordinaria cassa di risonanza che hanno le parole dei protagonisti di questo sport: due parole a sostegno di una iniziativa dette dal campione di turno raccolgono sicuramente molta più attenzione di tanti discorsi, magari più completi ed organici ma proposti con firme più anonime... è normale che sia così. Questo non vuol dire però che ci si possa muovere solo con i grandi nomi, spesso la serietà è una dote comunque apprezzata, e si possono raccogliere ottimi frutti anche con il solo impegno e la forza di volontà di credere a quello che si sta proponendo. L'ideale, quando possibile, è combinare le due cose.
La Roma, a livello societario vi aiuta, nel senso che sostiene le vostre iniziative?
Per fortuna sì. Ti raccontiamo un episodio, relativo alla stagione 1998-99. A maggio scoppiò la guerra in Kosovo, e al di là dell'Adriatico piovevano bombe sulle popolazioni civili. Ci sembrava tutto assurdo e pazzesco. Insieme al coordinamento romano obiettori di coscienza lanciammo a Damiano Tommasi, centrocampista della Roma e della nazionale italiana oltre che convinto obiettore di coscienza, l'idea di proporre in campo un gesto simbolico contro quell'escalation di guerra e di violenza. Damiano non solo prese al volo la proposta, ma se ne fece portatore all'interno dello spogliatoio, raccogliendo adesioni da tutta la squadra e anche da vari esponenti dello staff tecnico e dirigenziale. In quattro e quattr'otto preparammo delle maglie con la scritta "Stop violence, stop war" che tutti i giocatori indossarono sotto la tenuta da gioco nella partita a Bari che li vedeva impegnati in quella giornata di campionato, preoccupandosi di mostrarla a fotografi e giornalisti all'ingresso in campo e dopo ogni goal segnato. La società ci mise a disposizione la sala stampa di Trigoria per presentare l'iniziativa, e i giornalisti delle varie testate giornalistiche e radiofoniche dedicarono alle nostre parole la stessa attenzione normalmente riservata alle interviste dei giocatori o del mister, dando grande risalto sui quotidiani del giorno dopo a quell'iniziativa, nata quasi per caso dalla voglia di gridare basta a quella guerra. Qualche giorno dopo arrivarono ai giocatori della Roma telefonate dalla Serbia, da parte di persone commosse che avevano visto quella maglietta in televisione e avevano tratto speranze ed energie dal sapere che da questa parte dell'Adriatico, in quella stessa Italia che prestava le sue basi militari a quella guerra assassina, c'era anche chi chiedeva di fermare le bombe. Tutto questo grazie ad una maglietta preparata con mezzi di fortuna in una tipografia di quartiere: quanto basta poco, a volte, per arrivare lontano!
Tommasi ci raccontò che tutti i giocatori stavano vivendo molto da vicino quella tragedia, perché tra di loro c'era il serbo Tomic, i cui genitori e la cui fidanzata erano a Belgrado sotto le bombe. Per tutti i componenti della squadra era quindi naturale partecipare quotidianamente all'apprensione del loro compagno, informarsi sull'evolversi dei tentativi diplomatici di fermare la guerra, chiedere ogni giorno quante volte erano passati gli aerei a sganciare bombe e rallegrarsi se per una volta la sirena dell'allarme non aveva dovuto chiamare tutti nei rifugi. Ti citiamo questo particolare privato per sottolineare quanto a volte si pensi ai protagonisti delle scene calcistiche come a degli esseri di un altro pianeta, dimenticando che invece, anche se vivono in un ambiente sicuramente privilegiato e pieno di lustrini, fanno parte comunque del nostro mondo e possono trovarsi a vivere, direttamente o indirettamente, drammi e tragedie come chiunque, e come chiunque possono quindi essere pronti a dare la propria adesione a campagne ed iniziative su tematiche importanti.
Oltre a Tommasi c'è qualche altro giocatore della Roma che si occupa di volontariato?
Anche qui ti rispondiamo citando un episodio: nel mese di novembre 2000 è stato inaugurato in Kosovo un centro sportivo, costruito grazie alle multe interne pagate nella stagione precedente da tutti i giocatori della Roma, multe che i componenti dell’intera squadra, d'accordo con la società, hanno deciso di destinare a questo scopo. Alcuni giocatori sono intervenuti personalmente all'inaugurazione di questo centro, e questo è solo uno degli episodi in cui dei calciatori di serie A hanno dimostrato sensibilità ed attenzione verso un certo tipo di realtà. Gli stessi giocatori della Roma, in occasione del Natale, sono soliti destinare i soldi tradizionalmente riservati ai regali tra compagni di squadra a cause più utili, devolvendoli a cause sociali, e questo gesto semplice racchiude un messaggio culturale e politico importante, nel periodo dell'anno in cui invece va per la maggiore la corsa all'acquisto del superfluo guidata dal più sfrenato consumismo.
Come singolo giocatore oltre a Damiano Tommasi, citiamo a titolo di esempio il capitano della squadra: Francesco Totti, che recentemente è stato tra i primi calciatori ad adoperarsi per la raccolta fondi in aiuto alle vittime del terremoto in Molise, e non è nuovo ad attenzioni di questo tipo (per esempio ha destinato alla ricerca sul cancro i proventi del suo vendutissimo calendario 2001). Sia lui che altri giocatori hanno anche attività di volontariato più legate alla vita privata, ma su questo è doveroso rispettare la privacy che i personaggi pubblici giustamente chiedono su certi argomenti, ad evitare che gesti di solidarietà possano essere ingiustamente scambiati per mosse pubblicitarie o strategie di immagine.
Per tornare al discorso del messaggio culturale che deve sempre accompagnare i gesti concreti, ti citiamo l'intervista rilasciata due anni fa da Vavassori, allenatore dell'Atalanta, al termine di una partita di serie A. Al cronista che commentava il buon Natale che avrebbe passato l'Atalanta in virtù della sua ottima condizione di classifica, il mister rispose dicendo che era più importante augurare buon Natale a chi ne aveva bisogno per questioni ben più serie, ricordando che i componenti di una squadra di serie A passano delle buone feste indipendentemente dal fatto di trovarsi in cima o in fondo alla classifica. Ecco, anche una dichiarazione così spontanea e semplice, confinata in una risposta di pochi secondi, è un mattone quanto mai importante per sdrammatizzare le esagerazioni spesso create attorno al risultato di una partita di pallone e per non dimenticare mai le giuste unità di misura accanto a tutte le cose.
Roma, dicembre 2002
|