Damiano Tommasi, la faccia limpida del calcio
di Piero Mei

(tratto da "il Messaggero" del 24/04/2001)

Chissà cosa avrà pensato rivedendosi dopo il gol segnato all’Udinese, lui che dice "quando mi guardo non mi riconosco e vedo che commetto certi falli di gioco di cui mi vergogno". Non che ci fosse da vergognarsi stavolta, anzi: Damiano Tommasi ha segnato un bellissimo gol, uno di quelli che la domenica prima e due domeniche prima sarebbero finiti contro il palo, o la traversa, o poco più in là, o poco più in su. Tira, lo sguardo s’incolla sul pallone, lo segue fin quando non è dentro, ma proprio dentro la rete, e allora è lo stupore, il sorriso, la felicità perché Tommasi è prima di tutto un giocatore di calcio, e prima era uno che correva come direbbe Zeman, e lo diceva; il calcio anche per un tipo speciale come lui è qualcosa di speciale, quasi come l’immagine che dava una suora teologa, che se doveva spiegare al bambino cosa fosse la felicità lo portava in cortile e gli dava un pallone: "Mi accorgessi che mi sta rovinando la vita, smetterei subito, ma non con il pallone, perché andrei a giocare nelle categorie minori, dove i riflettori non t’illuminano ma sempre calcio è", ha detto Tommasi.
Il pallone non è la sola cosa che Damiano Tommasi prende a calci, e non è poi la vita: c’è ben altro con cui prendersela. Il pallone è un gioco, un gioco sano, come le costruzioni e la culla di legno che a Natale ha regalato alle sue bambine, perché crescano in un certo modo, e magari non impareranno a fare il cucchiaio dal dischetto di rigore della playstation, ma a lui non gliene importa niente. Il giorno che i supertecnici del calcio assegnavano il pallone d’oro a Figo, un’altra giuria assegnava a Damiano Tommasi l’altropallone, tutto attaccato, che sarebbe il pallone etico. Di sicuro Tommasi era più felice di questo di quanto non lo sarebbe stato di quello, lui che dà tutto se stesso in ogni impegno sportivo, anche nell’allenamento, ma che non considera il mondo un prato verde né i suoi confini delle strisce bianche. L’azzurro? Se viene viene: non è di quelli assatanati per il successo. Lo raggiunge perché pensa ad altro: all’impegno di dare il massimo.
Eccolo allora fare l’obiettore di coscienza nella Caritas di Verona (lui è nato a Negrar, il 17 maggio del ’74, ricordatevi il numero 17, tornerà); eccolo impegnarsi contro lo sfruttamento degli schiavi bambini nel cucire i palloni, e quanto deve costargli pensare che è proprio il suo sport preferito quello che tiene su questo ignobile commercio di piccole mani; eccolo presentarsi là dove serve un testimonial che raccolga interesse, ragazzo tra i ragazzi che frequentano gli Internet Café e s’iscrivono all’associazione "Nessuno tocchi Caino" contro la pena di morte; eccolo, come fa in campo, che adesso è là davanti a rubare una palla e l’attimo dopo è già in difesa a coprire il luogo che i difensori offensivi (o offensori difensivi) della Roma hanno appena sguarnito, eccolo trascinare i suoi compagni all’aiuto dei bambini più sfortunati che, pensa Tommasi e tutti dovremmo pensarlo, sempre bambini sono e qualcosa va fatto per loro, siano serbi o kosovari, siano africani o asiatici. Almeno almeno devolviamo i soldi delle nostre multe a loro favore, che da un male nasca un bene. Eccolo parlare dovunque contro il razzismo, perché sa che un uomo è un uomo, e il resto non conta; e un calciatore è bravo o non è bravo, sbaglia o fa la cosa giusta, ma la pelle non c’entra; né in campo né mai.
Non lo fischiate che mica lo fa da cattivo, dicono di lui anche i tifosi avversari (è successo a Udine) che zittiscono il vicino di seggiolino sempre pronto all’insulto appena rotola uno dei suoi beniamini; quello è Tommasi, non lo fa da cattivo, dicono. E l’insulto finisce, come finì il fischio romanista. Ricorderete: Tommasi arrivò in giallorosso ai tempi di Carlos Bianchi, il mago della pampa che aveva scordato lì le sue magie; le prime partite di Tommasi furono una bellezza, poi s’appannò; e allora, ad ogni sbaglio, eccoli i cori e i fischi, quelli che, tanto per dire, adesso toccano ad Antonioli e toccarono a Delvecchio. Fischiava l’Olimpico, ma Tommasi mai s’arrendeva: era sempre il primo ad entrare in campo, come fa tuttora appena può; corre a zigzag, piccoli scatti sull’erba, quasi a tastarla ed a testare se stesso, corre prima che l’arbitro fischi l’inizio e corre anche dopo che ha fischiato la fine. E ormai quelli sono i soli fischi che ascolta, perché adesso le bocche dell’Olimpico innamorato cantano "gioca bene gioca male, lo vogliamo in nazionale", e il Trap, che di mediani s’intende, ha dato retta a quei canti.
Già, i mediani: Ligabue ne ha cantato la vita, sempre a correre e faticare, senza la fantasia del 10, senza il dono divino "di chi finalizza il gioco"; i mediani non hanno niente di speciale, di particolare; meno si vedono, impegnati come sono a tirare la carretta, meglio è; non esultano e non esaltano; non sono in primo piano, niente aeroplanini né purghe, niente palle che sfuggono né mitraglie, niente numeri da circo, di quelli della famosa riga in mezzo fatta a Nedved da Cafu; niente di niente. Solo il lavoro, la fatica, l’impegno, di un’Italia che è assolutamente straordinaria e quotidiana nello sport, giacché non c’è nandrolone che tenga né palinsesto che scoppi, poi, alla fine, noi, quelli del calcio all’italiana e del massimo risultato con il minimo sforzo, risultiamo i più grandi faticatori del mondo.
Tommasi lo è; è la faccia pulita del calcio; lo chiamano anima candida, ma non perché sia un povero ingenuo: è lui che non la macchia. Lui, con il suo numero 17 che è il numero della sua maglia e della sua vita, un numero di famiglia, quel giorno è nato non solo lui. E il 17 di giugno è l’ultima giornata del campionato di calcio 2000-2001.