"RIAPRO L'OSPEDALE SOTTO LE BOMBE"
intervista di Vauro a Gino Strada
da "il manifesto", 11.11.2001
Gino Strada è a Kabul. Lì, da domani, l'ospedale di Emergency sarà operativo. Con lui ci sono altri due italiani, Fabrizio Lazzaretti e Alberto Vendemmiati, autori di Jang (fotogrammi del filmato girato nel viaggio dal Panshir alla capitale sono disponibili sul sito di Emergency). Gli unici occidentali a Kabul. La riapertura dell'ospedale è un segnale di civiltà nella città martoriata dai taleban e dai bombardamenti. Dimostra che un messaggio diverso dalla guerra è possibile e necessario. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente.
Quattro giorni fa ti ho lasciato nel Panshir, ora sei a Kabul.
Emergency non può non essere a Kabul oggi. Per ragioni che non hanno niente a che vedere con la politica, ma con il fatto che in questa città c'è gente che soffre, che muore per una guerra. Questa ragione è più che sufficiente per essere qui.
Per raggiungere Kabul hai dovuto attraversare le linee del fronte Nord. Cosa mi puoi raccontare di questo viaggio?
Il tipico viaggio afghano, con tutti gli accordi presi intorno a interminabili tazze di tè, in cui si arriva perfino a definire l'ora del passaggio del convoglio e il colore delle macchine. Bisognava informare anche chi stava volando sulle nostre teste. Siamo arrivati al fronte e tutti, regolarmente, stavano sparando, da una parte e dall'altra. Era in corso un bombardamento, è durato tre ore, colpendo esattamente la strada che dovevamo percorrere.
La strada che stava percorrendo il vostro convoglio umanitario è stata bombardata nonostante tutti fossero stati avvisati del vostro passaggio?
C'era stato garantito dai responsabili dell'Alleanza del Nord che i comandi militari americani sarebbero stati avvisati del nostro passaggio.
Avviso senza effetti?
Sì... ma non vorrei fare polemiche. Sarebbe stupido aspettarsi il rispetto delle regole nella guerra. La guerra è, per definizione, l'assenza di ogni regola.
Sei l'unico occidentale ad aver visto gli effetti dei bombardamenti...
Non li ho visti direttamente, ma lo staff Emergency afghano, mentre veniva a prenderci al fronte, ha visto in un villaggio bombardato, sulla strada per Tagab, raccogliere pezzi di membra umane. Abbiamo avuto conferma di almeno tre persone uccise da una bomba in una sola casa di quel villaggio. Abbiamo girato intorno con le auto a molti crateri freschi di bombe. Dall'aeroporto di Bagram, la strada è una pista sabbiosa che si ricongiunge a quella asfaltata che porta a Kabul. Lì non c'è più niente. I pochi accampamenti di pastori e nomadi sono scomparsi. E' una zona martellata dai bombardamenti ogni giorno.
Raccontami l'ingresso a Kabul.
La quantità di vittime è impressionante.
Quindi è una città ancora molto abitata? Alcuni sostengono che a Kabul ci sarebbero solo i taleban.
Sono coglionerie che mette in giro chi probabilmente pensa che Kabul sia nelle Filippine. A Kabul in questo momento ci saranno 800 mila, un milione di persone. Viene bombardata da un mese e nessuno pensa che anche questo possa essere un atto di terrorismo.
Ricordo Kabul a marzo, era già una città di macerie. Adesso?
E' difficile per chi ci ha passato quasi cinque anni della propria vita notare la differenza tra venti case in più o in meno. La gente però è allo stremo. C'è l'oscuramento, la contraerea è incessante, i bambini non dormono più. Non vorrei augurare ai figli di mia figlia di vivere esperienze del genere. Anche in questo momento bombardano.
Oscurato anche l'ospedale?
Sì.
Non è rischioso che non sia riconoscibile dall'alto?
Non poco. Domani andremo a rinegoziare. Ma per stasera c'è un ordine preciso di oscuramento totale.
Come sei riuscito a convincere i taleban a farti riaprire l'ospedale che eri stato costretto a chiudere a maggio per una loro incursione armata?
Il primo contatto con il ministro degli esteri taleban l'ho avuto il 12 settembre, quando era chiaro che ci sarebbe stato un attacco militare all'Afghanistan. La proposta di Emergency è stata: abbiamo avuto e abbiamo divergenze, forse insanabili, su molte questioni, però qui si profila un disastro umanitario e il nostro ospedale è l'unico in grado di curare i civili gratuitamente e bene. Riapriamolo, accantoniamo problemi e divergenze per tre mesi. Quando il periodo di crisi sarà finito ricominceremo a parlarne. Allora, probabilmente, saremo tutti diversi, quindi ne parleremo in modo diverso. La settimana scorsa c'è stato l'invito del mullah Omar, e il vice ministro degli esteri ha dato anche disposizioni al ministro della difesa di inviare suoi rappresentanti al fronte per guidare il nostro convoglio.
Che garanzie di protezione vi hanno dato rispetto ai cosiddetti "arabi", la legione straniera taleban?
Nessuna. Questa è una delle ragioni che rende la cosa molto rischiosa. Non ci sono altri occidentali a Kabul, siamo molto ben identificabili.
Potete circolare nella città?
Solo nel tragitto casa-ospedale.
Ma la casa è di fronte a un'abitazione degli "arabi"...
Sì, ma ora i dirimpettai sono al fronte. Non ne sentiamo la mancanza.
Al di là del suo valore umanitario, la vostra iniziativa dimostra anche che interloquire con il "nemico" è possibile.
Non faccio il politico. Credo ci siano due modi per affrontare una situazione internazionale così grave: uno è la guerra, l'altro è il dialogo. Io credo nel dialogo. Il dialogo è possibile, è una cosa che si costruisce soltanto se è preceduta dal rispetto, dimostrando che per te il fatto che chi hai di fronte sia vivo o morto non è indifferente. L'opposto della logica "dead or life". La ragione per cui noi stiamo qui non è che ci stanno simpatici i taleban, né i moujaehddin quando eravamo in Panshir. Siamo qui perché qui gli ospedali non hanno medicine né cibo da dare ai bambini.
Non voglio tirarti dentro polemiche, sono tornato da poco e ho trovato un paese più imbarbarito. Ma oggi sono andato a una manifestazione, tanta gente per il no alla guerra. Molti portavano lo straccio bianco della campagna Emergency. Vuoi dire loro una parola?
Voglio soltanto dire che mi sarebbe piaciuto esserci, e mi piacerà essere, in futuro, a tutte le manifestazioni contro la guerra. Non abbiamo davvero alternative. Il movimento per la pace non è soltanto l'unico che può rendere il mondo più bello da vivere, è anche l'unica strategia possibile per restare vivi.