Il giudice Di Schiena (Brindisi) ha inviato questa lettera aperta al Presidente Ciampi con una riflessione di carattere politico-giuridico sull'art. 11 della Costituzione, la partecipazione dell'Italia alla guerra preventiva in Iraq ed il discorso di fine anno del Capo dello Stato. Se la condividi falla girare come contributo a difesa della Costituzione.
LETTERA APERTA AL PRESIDENTE
CIAMPI
LA GUERRA PREVENTIVA E LA COSTITUZIONE
di Michele DI
SCHIENA
Non ci sono, signor Presidente, argomenti che
possano in alcun modo giustificare una partecipazione dell’Italia alla guerra
che gli Stati Uniti si stanno preparando a scatenare contro l’Iraq, anche se una
tale nefasta iniziativa dovesse ottenere illegittimi quanto servili consensi da
parte di organizzazioni internazionali delle quali fa parte il nostro Paese. Lei
è il supremo garante della Costituzione ed il Suo potere-dovere di vigilare
sull’osservanza dello Statuto, se può essere esercitato indirettamente ed in
funzione di stimolo per leggi ritenute incostituzionali (con messaggi alle
Camere per leggi in vigore e con la richiesta di una nuova deliberazione per
quelle da promulgare), soggette peraltro al controllo della Consulta, a maggior
ragione questo potere può essere usato – e certamente in maniera più pregnante –
per gravi decisioni riguardanti la guerra che sono per loro natura sottratte a
qualsiasi verifica giurisdizionale e restano solo esposte al giudizio politico,
necessariamente tardivo e perciò privo di concreta efficacia correttiva, del
corpo elettorale.
Per la decisione di intraprendere una guerra la
Carta costituzionale prescrive due precisi adempimenti: la deliberazione da
parte delle Camere dello stato di guerra col conferimento al governo dei
necessari poteri (art. 78) e la
dichiarazione da parte del Presidente della Repubblica di tale stato deliberato
dal Parlamento (art. 87). Si tratta
di atti indicati con estrema chiarezza e perciò non sostituibili con
provvedimenti impropri (risoluzioni o altro), come talvolta è accaduto per
l’adempimento della deliberazione sulla guerra demandato alla responsabilità del
Parlamento, né, peggio ancora, omissibili, come pure è avvenuto per la
dichiarazione di guerra attribuita alla competenza del Capo dello Stato. E ciò
perché questi atti e la “solennità” della forma per essi richiesta hanno la
specifica funzione di richiamare l’attenzione dei singoli parlamentari, delle
istituzioni, delle forze politiche e dell’opinione pubblica nelle sue varie
espressioni sulla drammatica gravità di una scelta di guerra. Deliberazione e
dichiarazione, l’una e l’altra nella precisa forma prescritta, sono dunque atti
distinti, sia pure all’interno di una procedura unitaria, ed in egual misura
indispensabili per la legittimità costituzionale di una decisione che impegni il
nostro Paese in imprese belliche.
Ora, se è vero come è vero che la decisione in
merito alla partecipazione ad una guerra spetta per disposto costituzionale alla
responsabilità del Parlamento, è altrettanto certo che la dichiarazione dello
stato di guerra da parte del Presidente della Repubblica, che ha anche il
comando delle Forze Armate e presiede il Consiglio supremo della difesa, non ha
una funzione meramente dichiarativa e non può essere declassato a livello di un
semplice atto “dovuto” perché ha un indubbio contenuto di controllo sul merito e
sulla forma della deliberazione delle Camere, ovviamente nel rispetto delle
prerogative del Parlamento. Di fronte ad una scelta di guerra da parte del
potere politico, il Presidente della Repubblica ha dunque nelle sue mani un
importante potere: può solennemente richiamare l’attenzione del Parlamento e del
Governo sulla insuperabile esigenza di rispettare puntualmente il disposto
dell’art. 78 dello Statuto qualora la deliberazione dovesse risultare non
costituzionalmente corretta nella forma o, se invece lo fosse nella forma ma
violasse nel merito l’art. 11 che “ripudia la guerra” non rigorosamente
difensiva, potrebbe sospendere la “dichiarazione” di sua spettanza
inviando un motivato messaggio alle Camere e chiedendo una nuova delibera che
tenga conto dei rilievi formulati. Potere questo che la Carta costituzionale
indubbiamente attribuisce al Capo dello Stato (pur in mancanza di una esplicita
menzione) in analogia con quanto previsto per le leggi e alla luce di una
interpretazione complessiva e razionale delle richiamate disposizioni
costituzionali.
Non può infatti sfuggire che la nostra
partecipazione ad una guerra preventiva contro l’Iraq, anche se avallata
dall’Onu, sarebbe pur sempre una guerra aggressiva e perciò vietata dal
ricordato art. 11 della Costituzione che “ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali”. Un precetto questo netto ed assoluto che non può essere in
alcun modo intaccato dalle “limitazioni
di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia
tra le nazioni”, limitazioni previste anch’esse dallo stesso art. 11. Né può
il ripudio della guerra trovare “zone franche” con impropri richiami all’art. 10
della Costituzione per il quale “l’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle regole del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
E ciò perché la ripulsa della guerra non rigorosamente difensiva è uno dei
valori primari e fondamentali dello Statuto, perché le “limitazioni di sovranità” devono essere
funzionali appunto ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia e non
certo a ragioni del genere di quelle poste a base della progettata guerra
statunitense ed infine perché “le regole
di diritto internazionale generalmente riconosciute” alle quali si deve
conformare il nostro ordinamento, regole che hanno la loro più significativa
espressione nello Statuto dell’Onu, vietano il ricorso ad azioni belliche per la
difesa preventiva che è in sostanza un penoso mascheramento della guerra di
aggressione, specialmente nella riconosciuta (da parte degli stessi Stati Uniti)
“incertezza sui tempi e sui luoghi
dell’attacco nemico”, come si legge testualmente in un documento americano
(“The National Security Strategy of the
United Stese”) del 17 settembre scorso.
E le regole del diritto internazionale vietano il
ricorso alla guerra preventiva per le ragioni indicate nella “sentenza” del
Tribunale permanente dei popoli, quel tribunale di opinione voluto nel 1979 da
Lelio Basso, uno dei padri della Costituzione. In tale “sentenza”, emessa al
termine della sessione svoltasi a Roma dal 14 al 16 dicembre scorso, si afferma
una verità che viene così lucidamente descritta: “la guerra è stata vietata perché è cambiata
la sua natura a causa delle sue illimitate capacità distruttive che rendono
ormai moralmente insostenibili tutte le vecchie cause ed i vecchi limiti della
guerra cosiddetta giusta. E il diritto internazionale, a sua volta, ha cambiato
natura perché ha cambiato natura la guerra. Vietando la guerra, quale che siano
le sue ragioni, esso ha trasformato la sua ingiustificabilità morale nella sua
illiceità giuridica ed ha così archiviato l’idea della guerra giusta”.
Ed allora, signor Presidente, vorremmo capire
meglio il significato dell’espressione da Lei usata nel messaggio di fine anno
quando, dopo aver citato l’art. 11 della Costituzione, ha detto: “questo non vuol dire certo un’Italia ed
un’Europa che rinuncino, incuranti delle sorti del mondo, alle loro
responsabilità internazionali. Anzi, come italiani e come europei, dobbiamo
adoperarci più incisivamente per ristabilire la pace nelle aree di crisi”.
La maggior parte degli italiani spera che con la citata espressione Lei non
abbia inteso operare alcuna apertura in direzione di una probabile “guerra
preventiva” contro l’Iraq. L’augurio è quindi che Lei voglia tradurre in
certezza questa speranza: oggi con una parola chiarificatrice e domani, in caso
di guerra, con l’esercizio dei poteri di cui dispone per assicurare il rispetto
della Costituzione repubblicana.
Brindisi, 10 gennaio 2003
|