La Fondazione Internazionale Lelio Basso, di fronte alla minaccia di una guerra preventiva contro l'Iraq, che metterebbe in pericolo il futuro del diritto internazionale e della convivenza civile dei popoli, ha deciso di lanciare l'appello approvato dal Tribunale Permanente dei Popoli a conclusione della sessione "Il diritto internazionale e le nuove guerre", svoltasi a Roma nei giorni 14 -16 dicembre 2002.
Le adesioni all'appello (qui sotto riportato) vanno inviate alla Fondazione Internazionale Lelio Basso (indirizzo di posta elettronica: filb@iol.it tel: 06.68801468; fax: 06.6877774, oppure andrea.mulas@poste.it tel: 339.1350351).


Contro la guerra

La minaccia di una guerra preventiva contro l'Iraq è una minaccia al futuro della convivenza civile sul nostro pianeta fondata sul diritto internazionale. Più ancora delle altre guerre del passato decennio, una simile guerra rappresenterebbe una violazione vistosa della Carta dell'Onu. Non ricorre infatti "un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite": che è il solo caso in cui è consentito dalla Carta l’esercizio del "diritto naturale di autotutela individuale o collettiva", in deroga al divieto della minaccia e dell'uso della forza nelle relazioni internazionali. Come hanno più volte affermato il Consiglio di Sicurezza e la Corte internazionale di giustizia, la "guerra preventiva", e perfino singole azioni militari intraprese contro l'astratto pericolo di un'aggressione, sono radicalmente contrarie all'ordinamento delle Nazioni Unite. La stessa espressione "guerra preventiva", del resto, è una formula contraddittoria, idonea a legittimare la guerra di aggressione attraverso la trasformazione dell'aggredito in aggressore.

Ma il pericolo di un crollo del diritto internazionale deriva soprattutto dall'aperta e insistente rivendicazione, che accompagna la minaccia di questa guerra, della legittimità della guerra medesima come strumento di soluzione dei problemi e delle controversie internazionali. Questa riabilitazione della guerra equivarrebbe a una dissoluzione dell'Onu, la cui ragion d'essere risiede precisamente nella messa al bando della guerra e nel mantenimento della pace, attraverso un complesso sistema di misure che include un uso regolato e controllato della forza sotto la costante direzione del Consiglio di Sicurezza. La guerra, in quanto uso sregolato, illimitato e incontrollato della forza, è d’altro canto la negazione del diritto, consistendo il diritto nella regolazione e nella limitazione della forza. E lo sono tanto più le odierne guerre aeree scatenate dalle potenze occidentali, il cui tratto caratteristico è di svolgersi senza perdite di vite umane dalla parte degli aggressori e di produrre la quasi totalità delle vittime tra le popolazioni civili, innocenti delle colpe addebitate ai loro governanti. Espressioni come "guerra giusta" o "guerra legittima" a proposito di queste guerre hanno perciò un significato analogo a quello di espressioni del tipo "giusto massacro", "giusta o legittima strage di innocenti", "giusta carneficina", "tortura legittima" e simili.

Non meno incongruo e irrazionale è il ricorso alla guerra come mezzo per battere il terrorismo globale. Il terrorismo è una forma di violenza politica che si caratterizza per la sua imprevedibilità e per il carattere indiscriminato delle sue vittime, immancabilmente innocenti. La risposta ad esso con la guerra, che è parimenti violenza indiscriminata, equivale a una sua omologazione ai metodi delle organizzazioni terroristiche, e perciò a un abbassamento degli Stati che la promuovono al loro livello. Ne risulterebbe una guerra altrettanto globale, senza limiti di tempo e di spazio, che anziché sconfiggere il terrorismo finirebbe per alimentarlo in una spirale senza fine. Al contrario il terrorismo può essere battuto soltanto con la risposta, rispetto ad esso asimmetrica, del diritto e della politica, cioè della scoperta e della cattura dei responsabili, nonché della capacità dei governi di farsi carico delle sue cause politiche, economiche e culturali.

La rilegittimazione della guerra come strumento di governo del mondo, preannunciata dal documento strategico americano del 17 settembre, produrrebbe inoltre una regressione neo-assolutistica e imperiale dell'ordine mondiale che finirebbe per compromettere le forme stesse dello stato di diritto e della democrazia. La restaurazione di un potere di guerra insindacabile e imprevedibile in capo alla superpotenza americana, e perciò al suo presidente, contraddirebbe infatti il paradigma dello stato di diritto, che non ammette poteri assoluti e richiede la soggezione alla legge di qualunque potere. E varrebbe a logorare profondamente le nostre democrazie, sotto due aspetti: all'interno dei paesi occidentali, a causa delle leggi liberticide, della disinformazione, della propaganda e dell'intimidazione del dissenso che sempre si accompagnano all'emergenza bellica; a livello mondiale perché di fatto l'intera popolazione della terra risulterebbe virtualmente soggetta a un nuovo sovrano, rappresentativo nel migliore dei casi del solo popolo del suo paese. Si avrebbe così il paradosso che una guerra, promossa secondo il documento strategico statunitense per difendere "libertà, democrazia e libero mercato", avrebbe raggiunto l'effetto di affossarli. E questa contraddizione sarebbe drammaticamente aggravata dalla crescita dell'odio e dello spirito di rivolta nei confronti dell'Occidente e dalla totale perdita di credibilità, presso i popoli poveri della terra, del suo intero sistema di valori.

L’imprudenza politica ha di solito conseguenze catastrofiche non soltanto per chi la subisce ma anche per i politici imprevidenti. Se poi l’imprudenza è un’imprudenza armata, la catastrofe acquista i caratteri della tragedia collettiva. Quando infine l’appello moralistico ai valori umanitari è utilizzato per occultare gli effetti perversi di una guerra, l’imprudenza politica ha la tendenza ad acquistare, come scrisse Hume, i caratteri della veemenza e a contribuire alla rapida distruzione dei medesimi valori che si invocano a sostegno dell'intervento armato. E’ probabile che in futuro l’uso sempre più frequente di un pensiero di tipo bellicista indebolisca i freni della prudenza e favorisca il trattamento veemente, cioè irriflessivo, dei problemi politico-giuridici. Questo contribuirà anche a formulare false giustificazioni a sostegno del raggiungimento egoista e violento di interessi nazionali, a imporre la pratica di una diplomazia coercitiva informata alla legge del più forte, a rafforzare gli odii e i pregiudizi ideologici e, last but not least, a ridurre la fiducia nella possibilità che le relazioni internazionali siano basate su principi e regole morali di carattere universale. Quando la guerra si rende accettabile attraverso lo schermo retorico dell’umanitarismo armato dei "moralisti politici", come li chiamò Kant, allora l’uscita dal labirinto della violenza diventa impossibile.

Noi non ci illudiamo, con questa dichiarazione, di convincere i potenti della terra dai quali dipendono i destini del mondo. Ciò che intendiamo affermare è che la guerra attualmente annunciata sarebbe giuridicamente illecita, moralmente ingiustificabile e politicamente inefficace. Il suo terribile effetto, oltre alle vittime e alle devastazioni che seguono ad ogni guerra, sarebbe la distruzione dell'attuale ordine internazionale nel tentativo, a nostro parere irrealistico, di sostituirlo con un nuovo ordine basato sulla forza e sull'arbitrio. Contribuire a privare questo nuovo ordine del consenso necessario alla sua legittimazione è il principale scopo di questo appello.