da LETTERA DA HIROSHIMA
di T. Hara
Mi ero alzato verso le otto di mattina quel 6 agosto 1945. Il giorno avanti, alla sera, vi erano stati due allarmi, nessuno dei quali seguito da bombardamento... Improvvisamente ricevetti un colpo sulla testa e tutto diventò oscuro davanti ai miei occhi. Gettai un grido ed alzai le braccia. Nelle tenebre, non sentivo che un sibilo di tempesta. Non arrivai a comprendere cosa fosse successo. Il mio primo grido, io l'avevo inteso come se fosse stato gettato da qualcun altro. Poi il mondo intorno mi ritornò visibile benché ancora non nettamente, ed ebbi l'impressione di trovarmi in un immenso cataclisma. Dietro la spessa nuvola di polvere apparve un primo spazio blu, seguito ben presto da altri spazi blu sempre più numerosi. Brevi fiammate cominciarono a sprizzare dall'edificio vicino, un deposito di prodotti farmaceutici. Era tempo di abbandonare quei luoghi. In compagnia di K, mi aprii la strada fra le macerie.
Fumate vorticose si elevavano da tutte le case in rovina. Raggiungemmo un posto in cui le fiamme mandavano un calore insopportabile. Poi trovammo un'altra strada che ci portò sino al ponte di Sakai. Il numero dei profughi che affluiva verso quel posto aumentava sempre. lo presi la direzione del palazzo Izumi. I cespugli calpestati dalle persone in fuga avevano formato una specie di passerella. Gli alberi erano quasi tutti decapitati. Ciascuno dapprincipio pensava che solo la casa sua fosse stata colpita; ma una volta al di fuori, ci si accorgeva che tutto era stato distrutto. Tuttavia, benché le case fossero completamente distrutte, in nessun posto si vedevano quelle buche che normalmente fanno le bombe. Sull'altra sponda, l'incendio, che sembrava essersi calmato, riprese a divampare.
Improvvisamente, nel cielo, al di sopra del fiume, vidi una massa d'aria straordinariamente trasparente che risaliva la corrente. Ebbi appena il tempo di gridare "Una tromba" che già un vento terribile ci colpì. I cespugli e gli alberi si misero a tremare; alcuni furono proiettati in aria da dove ricaddero come saette sul tetro caos. Si aveva l'impressione che il riflesso verde di un orribile inferno venisse a stendersi al di sopra della terra.
Dopo il passaggio della tromba, ben presto il crepuscolo invase il cielo. Incontrai mio fratello maggiore il cui viso era ricoperto come da una sottile pellicola di pittura grigia. Il dorso della sua camicia era ridotto a brandelli e scopriva una larga lesione che somigliava ad un colpo di sole. Risalendo con lui la stretta banchina che costeggia il fiume, alla ricerca di un traghetto, vidi una quantità di persone completamente sfigurate. Ve ne erano lungo tutto il fiume e le loro ombre si proiettavano nell'acqua. I loro visi erano così orrendamente gonfiati che appena si potevano distinguere gli uomini dalle donne. I loro occhi erano ridotti allo stato di fessure e le loro labbra erano colpite da forte infiammazione. Erano quasi tutti agonizzanti ed i loro corpi malati erano nudi. Quando passavamo vicino a questi gruppi, ci gridavano con voce dolce e debole "Dateci un po' d'acqua", "Soccorretemi, per favore"; quasi tutti avevano qualche cosa da chiederci.
Il cadavere nudo di un ragazzo giaceva nel fiume e, ad un metro di distanza, accovacciate su un gradino, si trovavano due donne. Riconoscemmo che erano donne soltanto per la loro acconciatura per metà bruciata. Trovammo infine un piccolo traghetto e, remando, giungemmo all'altra riva. Era quasi notte quando toccammo terra. Anche da questa parte sembrava che ci fossero molti feriti. Un soldato accovacciato sui bordi dell'acqua mi chiese di dargli un po' d'acqua calda. Appoggiandosi alla mia spalla, camminava sulla sabbia con sforzo. Bruscamente, mi disse: "Sarebbe meglio esser morti". Acconsentii in silenzio e, in quel momento, senza scambiare una sola parola, ci trovammo tutti e due riuniti in una incontenibile collera davanti alla pazzia che ci circondava. Seduto ad una tavola, un uomo dalla testa enorme e bruciata beveva acqua calda in una tazza da tè. Il suo strano viso sembrava fatto di una serie di grani di soia neri; inoltre i suoi capelli erano tagliati orizzontalmente all'altezza delle orecchie. Soltanto più tardi, dopo aver incontrato molti altri ustionati con i capelli tagliati orizzontalmente, finii per capire che le loro capigliature erano state distrutte sino al bordo dei loro cappelli. Al momento della marea, lasciammo la riva per risalire sulla banchina. Con l'oscurità, la notte si trasformava in inferno. Si udivano grida dappertutto "Da bere, da bere!". Improvvisamente un allarme: da qualche parte una sirena doveva esser rimasta intatta. Il suo urlo lacerò la notte. La città continuava a fiammeggiare: a valle, si scorgeva il bagliore incerto dell'incendio. Nel quartiere dei tempio, numerosi feriti gravi erano sdraiati un po' dappertutto, per terra. Non un albero, non una tenda per dar loro un po' d'ombra. Noi ci costruimmo un riparo appoggiando pezzi di tavole contro un muro e scivolammo li sotto. Dovemmo passare ventiquattro ore in quel breve spazio, dividendolo in sei. Due metri più lontano c'era un ciliegio che aveva conservato qualche foglia. Due studentesse si erano lasciate cadere sotto questo albero: avevano tutte e due il viso carbonizzato e, volgendo il loro magro dorso al sole, supplicavano che si desse loro un po' d'acqua. Erano giunte il giorno prima ad Hiroshima per partecipare alla mietitura e così erano state colpite da questa grande disgrazia. Il sole era al suo declino...
Anche prima del levar del giorno, ascoltavamo intorno a noi il mormorio ininterrotto delle preghiere: in quell'angolo le persone sembrava morissero l'una dopo l'altra. Le due studentesse morirono all'alba. Nuovo allarme verso mezzogiorno; si intese un rombo nel cielo. Le persone morivano l'una dopo l'altra e nessuno veniva a portar via i cadaveri. Con l'aria sconvolta, i vivi erravano tra i corpi. Si videro allora tutte le rovine nelle strade principali. Uno spazio vuoto e grigio si estendeva sotto un cielo di piombo. Soltanto le strade, i ponti ed i bracci del fiume erano ancora riconoscibili. Nell'acqua galleggiavano cadaveri dilaniati, gonfiati. Era l'inferno divenuto realtà.
Tutto ciò che era umano, era stato cancellato. I visi dei cadaveri si somigliavano tutti, come se portassero tutti la stessa maschera. Prima di irrigidirsi, le membra degli agonizzanti si agitavano sotto l'effetto del dolore e in maniera assai strana. I chilometri di cavi che coprivano il suolo e gli innumerevoli frammenti di pali elettrici costituivano un disegno pazzesco. Davanti allo spettacolo di un tram che sembrava fosse stato rovesciato e bruciato nello spazio di un lampo, o davanti a quello di un cavallo morto, con la carcassa smisuratamente gonfia, si aveva l'impressione di trovarsi al centro di un quadro surrealista. La nostra carretta attraversava interminabili spazi coperti di rovine; la serie delle case smantellate si prolungava sino alla più lontana periferia. Trovammo un paese verde ed intatto soltanto molto più avanti. La danza leggera delle libellule che folleggiavano al di sopra dei campi verdi di riso ci commosse profondamente.
Di là, prendemmo la strada lunga e monotona che conduce al villaggio di Yáwata. Era notte quando vi giungemmo. Il giorno dopo dovemmo riprendere la nostra vita miserabile. Non solo non si vedeva nessun segno di miglioramento dei feriti, ma anche coloro che stavano bene si indebolivano ogni giorno di più e deperivano per mancanza di nutrimento.Qualche giorno più tardi vidi arrivare un allievo, mio nipote, che in seguito doveva morire. Al momento dell'esplosione si trovava a scuola. Quando vide l'accecante luce che entrò nell'aula, egli si gettò sotto il suo banco. Il soffitto era crollato e l'aveva seppellito, ma insieme con qualche compagno era riuscito a venir fuori attraverso un buco. La maggior parte dei fanciulli erano stati uccisi sul colpo. Con i suoi compagni, si era rifugiato su una vicina montagna; durante l'ascensione aveva continuato a vomitare un liquido bianco. Una settimana dopo il suo arrivo al villaggio cominciò a perdere i capelli e divenne calvo in due giorni. Già s'era sparsa la voce che un malato non avrebbe sopravvissuto alle sue ferite se perdeva capelli e sanguinava dal naso. Tuttavia mio nipote doveva vivere ancora qualche tempo malgrado il grave stato in cui si trovava...
...Verso sera, attraversai il ponte e mi diressi, attraverso i campi, in direzione del terrapieno che si trova ai margini di Yáwata. Una libellula nera asciugava le sue ali su una roccia. lo feci il bagno là, respirando assai profondamente. Girando la testa, vidi i piedi della montagna avviluppati nel crepuscolo, mentre le cime lontane scintillavano ancora al sole che tramontava. Si sarebbe creduto un paesaggio di sogno. Il cielo al di sopra di me era di un silenzio assoluto.
Ebbi l'impressione di non esser venuto sulla terra che dopo l'esplosione della bomba atomica.