La vera storia del macchinista ferroviere
Alla fine di ogni concerto Francesco Guccini ripropone la sua ballata più popolare: "la locomotiva", dopo oltre vent'anni, continua a commuovere gli animi di giovani e meno giovani. Ma pochi sanno che questa canzone si richiama a un fatto realmente accaduto il secolo scorso: protagonista il fuochista anarchico Pietro Rigosi, che si impadronì di una locomotiva e la mando a schiantarsi contro una vettura in sosta nella stazione di Bologna. Miracolosamente si salvò, ma non svelò mai il mistero di quella folle corsa.
(tratto da "Amico treno" dell'aprile 1993)
Quando i concerti si avviano alla fine, e le richieste
si fanno più insistenti, dopo i successi di tante stagioni, è ormai rituale per
Francesco Guccini chiudere con la sua ballata più popolare: la locomotiva. Dopo oltre
vent'anni, con tutto quello che è avvenuto nel frattempo, questa canzone dal
sapore libertario, continua a smuovere qualcosa negli animi di giovani e meno
giovani, in quella parte che vuole, malgrado tutto, continuare a credere. E
quell'immagine, sia pure un po' sinistra, della locomotiva "come una cosa
viva lanciata a bomba contro l'ingiustizia" mantiene il suo fascino col
passare delle generazioni. E questa una ballata che si richiama a un fatto
realmente accaduto il secolo scorso (esattamente il 20 luglio 1893) e, per quanto riguarda i fatti, vi si attiene fedelmente. Si tratta di un episodio singolare, rimasto se non unico abbastanza raro negli annali ferroviari. La curiosità di saperne
di più ci ha spinto a qualche ricerca, sulla stampa dell'epoca e negli archivi delle
Ferrovie.
"Il disastro di ieri alla ferrovia - l'aberrazione
di un macchinista", titola il quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino”
del 21 luglio 1893. Nell'articolo si legge:
"Poco prima delle 5 pomeridiane di ieri, l'Ufficio
Telegrafico della stazione (di Bologna, ndr) riceveva dalla stazione di Poggio
Renatico un dispaccio urgentissimo (ore 4,45) annunziante che la locomotiva del
treno merci 1343 era in fuga da Poggio verso Bologna. Lo stesso dispaccio era
stato comunicato a tutte le stazioni della linea, perché venissero prese le disposizioni
opportune per mettere la locomotiva fuggente in binari sgombri dandole libero
il passo in modo da evitare urti, scontri o disgrazie. [...] Capo stazione,
ingegneri e personale del movimento furono sossopra e chi diede ordini, chi si
lanciò lungo la linea verso il bivio incontro alla locomotiva che stava per
giungere. Non si sapeva ancora se la macchina in fuga era scortata da qualcuno
del personale; e solo i telegrammi successivi delle stazioni di San Pietro in
Casale e Castelmaggiore, che annunziavano il fulmineo passaggio della
locomotiva, potevano constatare che su di essi stava un macchinista e un
fuochista. Ma la corsa continuava e la preoccupazione alla ferrovia cresceva
[...]“
All'epoca già confluivano alla stazione di Bologna quattro
importanti linee ferroviarie e i binari di stazione erano soltanto cinque. In
quell'ora i binari erano ingombri per treni in arrivo e in partenza Non c'erano
sottopassaggi. La inevitabile concisione dei dispacci telegrafici impedì di
comprendere chiaramente la situazione. Per evitare guai maggiori la locomotiva
venne instradata sul binario cosiddetto "2 numeri", un binario tronco
sulla destra, più o meno dove oggi c'è il fabbricato delle Poste. Allora
c'erano le tettoie della gestione merci.
”Alle 5,10 [la locomotiva] entrava dal bivio e passava
davanti allo scalo, fischiando disperatamente, con una velocità superiore ai 50
km. Sulla macchina c'era un uomo che, invece di dare il freno, cercare di
fermare, metteva carbone.... Era un uomo che correva, che voleva correre alla
morte! Il personale lungo la linea agitando le braccia, gridando, gli faceva
cenno di fermare, di dare il freno; taluno gli urlò di gettarsi a terra, ma
egli rimaneva imperterrito nella locomotiva. Un esperto macchinista, il
Mazzoni, che era lungo la linea e lo vedeva correre incontro a morte sicura,
gli gridò: "buttati a terra!"; ma il giovanotto - che giovane era lo
sciagurato - dalla banchina a lato della piazza tubolare della caldaia
tenendosi alla maniglia di ottone, si portò sul davanti della locomotiva sotto
il fanale di fronte, attaccato sempre alla maniglia e colla schiena verso la
stazione dov'era il pericolo.”
La locomotiva (della quale il giornale ci dà anche il numero
di matricola: era la 3541) andò quindi a sbattere contro la vettura di prima
classe ed i sei carri merci che si trovavano in sosta sul binario tronco alla
velocità di 50 chilometri orari.
"Al momento dell'urto egli era sulla fronte della macchina
e i presenti che lo videro esterrefatti passare dinanzi a loro affermano che
proprio al momento dell'urto egli si sporse in fuori, volgendo la testa verso
la vettura, contro alla quale andava a dar di cozzo. L'urto, disastroso per la
macchina e i carri, fu tremendo per l'uomo. Egli rimase preso fra la macchina e
il vagone di la classe schiacciato orribilmente. Accorsero funzionari delle
ferrovie, di P.S., guardie, personale viaggiante e manovali e il disgraziato fu
tosto riconosciuto. È certo Pietro Rigosi di Bologna, di anni 28,
fuochista da parecchi anni e buon impiegato... a Poggio Renatico, mentre il
macchinista Rimondini Carlo era sceso un momento, il Rigosi aveva sganciato la
locomotiva del treno merci e poi l'aveva lanciata a tutta velocità legando la
valvola del fischio, per modo che destò l'allarme per tutta la corsa. Avrebbe
potuto pentirsi durante il tragitto e dare il freno (che funzionava bene anche
dopo la catastrofe) ma egli non volle. Probabilmente un'improvvisa alterazione
di cervello che lo rese crudele contro se stesso, perché, per quanti pensieri
di famiglia egli avesse, non giustificavano certo un tentativo di suicidio che
poteva costare la vita a molte altre persone.”
Il fatto ebbe una grande risonanza su tutta la stampa
nazionale. Vi fu chi immaginò che il macchinista avesse letto “La bête humaine”
di Emile Zola, restandone suggestionato al punto da imitarne le vicende. Altri
mossero critiche alle ferrovie per non aver provveduto ad insabbiare un binario
allo scopo di far fermare la locomotiva senza danni. Un lettore del Resto del
Carlino mandò un telegramma al giornale sostenendo che, inviando incontro alla
locomotiva in fuga, una macchina di maggiore potenza, questa avrebbe potuto,
una volta avvistatala, invertire la marcia e frenarne la corsa gradualmente.
Tutti i commenti concordavano sulla imprevedibilità del gesto.
Pietro Rigosi veniva indicato dal giornale come
"fuochista da parecchi anni e buon impiegato". Sposato, padre di due
bambine, di tre anni e di dieci mesi. Nessuna indagine sulle sue condizioni
economiche e familiari consentì di capire quali motivi lo avessero spinto.
Qualche debito di importo non rilevante, ma al tempo era abbastanza frequente,
nessuna oscura vicenda personale, nessun dissapore familiare. Sorprendentemente
il nostro uomo non rimase ucciso in quello scontro terribile nel quale aveva
cercato deliberatamente la morte mettendosi fra la locomotiva e la vettura
ferma. Evidentemente l'urto fortissimo lo fece schizzare via prima che i due
veicoli si incastrassero l'uno nell'altro. Gli venne amputata una gamba, il
viso rimase deformato dalle cicatrici, dovette sopportare una lunga degenza
all'ospedale, ma dopo circa due mesi fece ritorno a casa. Inutilmente i
giornalisti e i curiosi che gli facevano visita tentarono di chiedergli i
motivi che lo avevano spinto ad un gesto tanto clamoroso. A nessuno venne
risposto: il Rigosi si mantiene abbastanza tranquillo, parla con chi va a
fargli visita, ma si astiene sempre ad accennare alle cause e al movente del
suo atto, cambiando discorso o non rispondendo ogni volta che gli si richiede
per quale ragione lanciò la sua macchina a tutto vapore da Poggio a Bologna e
perché cercasse di morire. Un'unica frase, che il cronista del Carlino riprende
da un articolo della Gazzetta Piemontese, sembra gli sia sfuggita subito dopo
il ricovero: "Che importa morire? Meglio morire che essere
legato!"
Un vero personaggio, Pietro Rigosi, fuochista delle
Strade Ferrate Meridionali - Rete Adriatica, matricola 42918. E comprensibile
che questo suo atteggiamento, dignitoso e ribelle insieme, abbia ispirato
Francesco Guccini. Abbiamo perciò fatto qualche ricerca d'archivio per saperne
di più. Non era un ferroviere modello. Non tanto perché veniva spesso punito.
Per i ferrovieri dell'esercizio allora ad ogni minimo errore corrispondeva una
sanzione economica. Nel caso di Rigosi Pietro si tratta però di mancanze di
omissione, negligenza, o diverbi con colleghi e superiori. Tutti chiari segni
di affaticamento e insofferenza all'ambiente. Multa di £ 5 per aver risposto
"con modo sconveniente al Capo Deposito di Piacenza mentre questi taceva
delle giuste osservazioni al suo Macchinista". Sospensione per tre giorni
dal soldo e dal servizio per essere "venuto a diverbio col Macch.
Baroncini Federico per futili motivi tra Mestre e Marano. Diede poi luogo ad un
deplorevole alterco sotto la tettoia della stazione di Padova". Tre mesi
prima del fatto era stato punito con "sospensione dal soldo e dal servizio
per giorni tre per aver preso in mala parte una frase detta per ischerzo da un
macchinista del Deposito di Milano e non a lui rivolta, provocando così un
diverbio, seguito da vie di fatto in stazione di Piacenza". Ma numerose
sono le multe per mancata presentazione al treno. "Mancò alla partenza dal
treno 1008 del 7 agosto sebbene avvisato il giorno prima e avanti alla partenza
dallo svegliatore". Erano mancanze che costavano care: dalle 3 alle 5 lire
quando la paga giornaliera era di 2 lire e 50. Alcune multe riguardavano
mancanze oggi incomprensibili: venne trovato coricato nelle brande del
dormitorio senza le prescritte lenzuola. I dormitori dotati di docce erano
rarissimi e i macchinisti erano costretti a ripulirsi molto sommariamente prima
di coricarsi. L'uso delle lenzuola da parte dei ferrovieri si rendeva quindi
obbligatorio per evitare che venissero insudiciate le brande.
C'è una vasta letteratura sulle pesanti condizioni di
lavoro dei ferrovieri, in particolare dei macchinisti, alla fine del secolo
scorso. Turni ininterrotti fino a trenta e anche quaranta ore consecutive,
esposizione alle intemperie su macchine non di rado senza alcun riparo o con
ripari che risultavano del tutto insufficienti, disciplina di tipo prussiano,
tutto questo aggiunto ad un mestiere già duro: ricordiamo che una corsa da
Venezia a Bologna significava per il fuochista spalare quaranta quintali di
carbone. Non stupisce quindi che la mortalità nella categoria fosse tanto alta
che non più del 10% dei macchinisti arrivava alla pensione. Forse fu tutto
questo a spingere il nostro alla corsa forsennata verso Bologna. Anche se non
volle mai dirlo pubblicamente ci doveva essere un rancore profondo in Pietro
Rigosi verso la Società delle Strade Ferrate.
Qualche tempo dopo essere stato dimesso dall'ospedale,
venne "esonerato dal servizio per motivi di salute". Il Consorzio di
Mutuo Soccorso gli liquidò un sussidio di lire 308,13 e la Direzione delle
Ferrovie ne dispose un secondo "a solo titolo di commiserazione, di £ 150,
pari a due mesi della paga che percepiva". Al momento di ritirare il
sussidio Pietro Rigosi si avvide che sul ruolo di pagamento, che avrebbe dovuto
firmare per ricevuta, stava la scritta come motivazione "buona
uscita". Tanto bastò per fargli rifiutare quella cifra di cui doveva avere
certamente un gran bisogno. Evidentemente nessuno doveva pensare che la sua
uscita dalle ferrovie fosse avvenuta in bontà di rapporti. Accettò la somma
solamente dopo che la motivazione di buona uscita venne sostituita con 'per
elargizione'. Anche l'atteggiamento della severissima Società delle Strade
Ferrate Meridionali fu, nell'occasione, stranamente indulgente. Il fatto aveva
provocato danni notevoli, tanto da venire citato nella relazione annuale agli
azionisti fra le cause che avevano limitato l'ammontare degli utili
corrisposti. Nessuna punizione per il ferroviere responsabile. Esonero per
motivi di salute, invece del licenziamento, e corresponsione di un sussidio non
certo elevato, ma certamente non dovuto. L'ipotesi della follia esonerava dalla
necessità di approfondire le cause e, con i pazzi e i fanciulli, è sempre
opportuna la clemenza.
Per gli appassionati di cose ferroviarie, due parole
sulla locomotiva protagonista della vicenda. La 3541 faceva parte di una serie
di 130 unità comprese nel gruppo 350 RA, che dal 1905 divenne Gr 270 PS. Poiché
tutte le macchine, dapprima numerate 3501-3630 RA, divennero poi 2701-2830 FS
ed infine 270.001-270.130 (sempre FS ma numerazione definitiva), si può dedurre
che la nostra 3541 RA sia stata riparata e poi messa in servizio e, dopo il
1905 è probabile che abbia assunto la numerazione provvisoria di 2741, e
definitiva 270.041 FS. Tre assi accoppiati, lunghezza di 15 metri per 43
tonnellate di peso, potenza 440 CV, velocità massima 60 km/ora, del tipo
cosiddetto bourbonnais, un modello che trovò in Italia grande impiego per le
sue doti di adattabilità ai percorsi tortuosi e con modesti carichi assiali. Si
trattava di una modesta macchina, destinata prevalentemente al traino dei treni
merci e omnibus nelle linee pianeggianti, che conobbe il suo momento di gloria
durante la Prima Guerra Mondiale e fu mantenuta in attività fino alla seconda
metà degli anni '20.
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